le teste scambiate

di Emanuela Nava

A nove anni, mentre giocavo a nascondino con mamma e papà, mi ritrovai in un luogo dove vivevano piante carnivore, animali a due teste, draghi che sputavano succo di mirtillo velenoso.
Mi infilai in una buca e dalla buca scivolai in una grotta sotterranea. C’erano pinnacoli e torri merlate, mura ornate da alte stalattiti, rocce forate sottili come pizzi. Avanzai piano, tentoni. La debole luce che filtrava dall’alto si spegneva a ogni passo. Ero giunto in una camera rotonda scavata nella pietra chiara. Accesi la torcia che avevo in tasca. Attorno a me si ergevano imponenti stalagmiti. Più avanti si scioglievano sentieri che conducevano in antri segreti.
C’era un silenzio ovattato in quella spelonca, che a tratti veniva interrotto dallo scorrere lontano di un rivo d’acqua. Chiusi gli occhi. Per qualche istante provai una sensazione di sonno, di piacevole torpore.
Poi ritornai vigile e mi voltai: scrutai tra i fori, tra gli imbuti di roccia e tra le pietre scivolose, come nello scheletro di un animale preistorico.
Fu allora che sotto una roccia scorsi un’ombra, una grossa massa scura appiattita. Era un orso, un gigantesco orso bruno che dormiva.
La mia mamma me lo aveva sempre detto: «Ludino, prima o poi farai una brutta fine».
Da quando avevo tre anni mi propinava un campionario completo dei più disgustosi incidenti che mi sarebbero potuti capitare: «Sprofonderai nelle sabbie mobili, ti porterà via il fiume, ti spunterà la coda, ti cresceranno i peli tra le dita, sarai rapito da un cannibale, sparirai tra le fauci di un coccodrillo!».
Finiva che, sin da piccolo, annientato da quelle profezie, ogni volta che giocavo mi facevo male. Non avevo ancora incontrato un lupo mannaro o un mostro a due teste, ma tornavo sempre a casa pesto e malconcio.
Allora la mamma mi fasciava e mi incerottava con un ghigno sinistro. «Finalmente starai fermo!» gorgogliava. Sorridevo per non mostrare la mia debolezza, ma mentre lei mi immobilizzava, io mi sentivo una mummia mortalmente offesa.
A nove anni avevo già rotto il naso, la gamba destra, il braccio sinistro, trentanove piatti e ventisette bicchieri (il papà teneva una specie di rendiconto su un taccuino). Per non parlare del telecomando della Tv, che mi era caduto dalle mani mille volte e funzionava solo i giorni dispari, o della sveglia, della radio e di tutte le altre diavolerie che i miei genitori sostenevano avessi rotto io. «Ludino, Ludino, dove ti sei cacciato? Ti sei fatto male come al solito?» ripetevano.
Dentro la grotta guardavo l’orso con la mente terrorizzata dalle peggiori fantasie, e intanto udivo in lontananza la voce dei miei genitori che mi cercavano.
Tacevo e trattenevo il fiato. Temevo che l’orso potesse svegliarsi e aggredirmi. Lo vedevo già mentre, furioso per quella sveglia anticipata, mi afferrava e mi imprigionava con l’intenzione di divorarmi dopo il letargo.
– Ludino, Ludino!
In punta di piedi, timoroso, abbassai la pila e feci qualche passo indietro in cerca del passaggio che mi avrebbe riportato all’aperto, ma scivolai sulla pietra umida e caddi.
– Ludino, Ludino!
Per fortuna non mi ero fatto nulla, ma la torcia aveva sbattuto contro la roccia con un tonfo sordo.
L’orso si mosse e sbadigliò. Poi aprì gli occhi.
Ero perduto. Feci per scappare, ma la bestia allungò una zampa per immobilizzarmi.

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