A nove anni, mentre giocavo a nascondino
con mamma e papà, mi ritrovai
in un luogo dove vivevano piante carnivore,
animali a due teste, draghi che
sputavano succo di mirtillo velenoso.
Mi infilai in una buca e dalla buca scivolai
in una grotta sotterranea. C’erano
pinnacoli e torri merlate, mura ornate
da alte stalattiti, rocce forate sottili come
pizzi. Avanzai piano, tentoni. La debole
luce che filtrava dall’alto si spegneva a
ogni passo. Ero giunto in una camera rotonda
scavata nella pietra chiara. Accesi
la torcia che avevo in tasca. Attorno a
me si ergevano imponenti stalagmiti.
Più avanti si scioglievano sentieri che
conducevano in antri segreti.
C’era un silenzio ovattato in quella
spelonca, che a tratti veniva interrotto
dallo scorrere lontano di un rivo d’acqua.
Chiusi gli occhi. Per qualche istante
provai una sensazione di sonno, di piacevole
torpore.
Poi ritornai vigile e mi voltai: scrutai
tra i fori, tra gli imbuti di roccia e tra le
pietre scivolose, come nello scheletro di
un animale preistorico.
Fu allora che sotto una roccia scorsi
un’ombra, una grossa massa scura appiattita.
Era un orso, un gigantesco orso
bruno che dormiva.
La mia mamma me lo aveva sempre
detto: «Ludino, prima o poi farai una
brutta fine».
Da quando avevo tre anni mi propinava
un campionario completo dei più disgustosi
incidenti che mi sarebbero potuti
capitare: «Sprofonderai nelle sabbie
mobili, ti porterà via il fiume, ti spunterà
la coda, ti cresceranno i peli tra le dita,
sarai rapito da un cannibale, sparirai
tra le fauci di un coccodrillo!».
Finiva che, sin da piccolo, annientato
da quelle profezie, ogni volta che giocavo
mi facevo male. Non avevo ancora incontrato
un lupo mannaro o un mostro
a due teste, ma tornavo sempre a casa
pesto e malconcio.
Allora la mamma mi fasciava e mi
incerottava con un ghigno sinistro.
«Finalmente starai fermo!» gorgogliava.
Sorridevo per non mostrare la mia
debolezza, ma mentre lei mi immobilizzava,
io mi sentivo una mummia mortalmente
offesa.
A nove anni avevo già rotto il naso, la
gamba destra, il braccio sinistro, trentanove
piatti e ventisette bicchieri (il
papà teneva una specie di rendiconto
su un taccuino). Per non parlare del telecomando
della Tv, che mi era caduto
dalle mani mille volte e funzionava solo i
giorni dispari, o della sveglia, della radio
e di tutte le altre diavolerie che i miei
genitori sostenevano avessi rotto io.
«Ludino, Ludino, dove ti sei cacciato?
Ti sei fatto male come al solito?»
ripetevano.
Dentro la grotta guardavo l’orso con la
mente terrorizzata dalle peggiori fantasie,
e intanto udivo in lontananza la voce
dei miei genitori che mi cercavano.
Tacevo e trattenevo il fiato. Temevo
che l’orso potesse svegliarsi e aggredirmi.
Lo vedevo già mentre, furioso per
quella sveglia anticipata, mi afferrava
e mi imprigionava con l’intenzione di
divorarmi dopo il letargo.
– Ludino, Ludino!
In punta di piedi, timoroso, abbassai
la pila e feci qualche passo indietro
in cerca del passaggio che mi avrebbe
riportato all’aperto, ma scivolai sulla
pietra umida e caddi.
– Ludino, Ludino!
Per fortuna non mi ero fatto nulla, ma
la torcia aveva sbattuto contro la roccia
con un tonfo sordo.
L’orso si mosse e sbadigliò. Poi aprì
gli occhi.
Ero perduto. Feci per scappare, ma
la bestia allungò una zampa per immobilizzarmi.
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