Kamigalò, parole e musiche di una festa africana
La storiaTorna allo spettacolo
Emanuela Nava
Quando morì Kamigalò tutti
dissero è morto il cielo nuvoloso. C'era il sole alto quel giorno e nei
campi le piantine di miglio appassivano come lumache senza guscio.
Era morta ed era nata durante la siccità, Kamigalò. Quando sua madre si
accorse di avere il ventre troppo gonfio, la stagione secca durava ormai
da due anni.
I campi erano arsi e le donne che si mettevano in cammino all'alba, perché
il pozzo che aveva ancora acqua era lontano, tornavano a casa con la pelle
bruciata e il cuore in altomare. Ma quando sua madre si aggrappò
all'albero di mopane, aspettando che la vita le uscisse dal corpo con
l'impeto di un fiume in piena, il cielo diventò all'improvviso nero come
la notte e il vento soffiò forte.
- Ti chiamerai Kamigalò. - disse allora la madre alla figlia. - Perché
nella lingua jola Kamigalò vuol dire cielo nuvoloso che sta per piovere.-
E pronunciate quelle parole, l'acqua scese dalle nuvole e bagnò i campi
rossi di terra e sorgo, e dal cielo si diffuse un ritmo nuovo e audace,
come una musica appassionata di djembé accordata ai vagiti di una neonata.
Bastò questo prodigio perché tutti capissero che era nata una profetessa.
La adornarono con sette ju ju, perché sette sono i giorni che dividono la
terra dal cielo. E in dono le portarono la più grossa calebassa del campo.
- Che la tua vita sia un ricco raccolto. - le disse il Capo del villaggio.
Kamigalò crebbe bella e col cuor contento, e quando venne il tempo, prese
un marito che arrivava da lontano e aveva il corpo nudo dipinto a strisce
e punti e un'acconciatura fatta di piume gialle come un uccello tessitore.
Vissero felici, marito e moglie, lei badava all'acqua e al fuoco, e lui
pensava a mietere il grano. Così, uno dopo l'altro, nacquero quattro
maschi. E il giorno delle nozze dei figli, Kamigalò, come si usa dalle sue
parti, diede alle famiglie delle spose le quattro mucche dalle corna
grosse che aveva ereditato da suo padre.
Ma poi venne ancora la siccità e nei villaggi molte bestie morirono.
- Dovresti sacrificare la capra nera e anche il gallo rosso agli spiriti
delle nuvole.
-Solo tu puoi far piovere.- diceva la gente.
Ma lei tirava un sospiro.
- L'uomo che si è alzato sulle punte dei piedi per sembrare più grande è
caduto a terra. - esclamava e si metteva a spulciare i suoi nipoti con le
due mani grandi: un dito da solo non uccide un pidocchio.
Il giorno che morì, Kamigalò era così vecchia che i bambini del villaggio
l'avevano soprannominata piede che canta, perché certe volte le sue ossa
scricchiolavano così tanto che sembravano un frinire sommesso di cicale.
Morì senza soffrire, Kamigalò, chiuse gli occhi sotto il grande baobab.
Vicino a lei i bambini giocavano con le latte di pomodoro che avevano
legato l'una all'altra come tanti vagoni di un treno.
Quando i bambini diedero l'allarme, prima arrivò il marito, sorretto da un
bastone, poi i figli seguiti dalle nuore, quindi venne il Capo, infine
tutto il villaggio, preceduto dai suonatori. Gli uomini più giovani
battevano la terra con le mani e i piedi, e le donne facevano vibrare
forte la lingua in un grido lungo e acuto.
Era un grido di tristezza, ma anche di speranza.
- La vita è un girotondo, e ciò che muore sempre rinasce. - dissero gli
anziani.
Furono chiamati gli imbalsamatori. Kamigalò fu portata nella sua capanna e
lì il suo corpo fu lavato, profumato, purificato con balsami e incenso
bruciato. Poi lo stregone le spalmò le membra con un olio ricavato dalle
piante della foresta. Era l'olio con cui venivano benedetti i ragazzi
durante il rito d'iniziazione. Nessuno sapeva da quali piante fosse
estratto: la formula era segreta, se la tramandavano gli stregoni di padre
in figlio. E anche le prove che i ragazzi dovevano superare per diventare
uomini dovevano restare segrete, e guai a parlarne, due galli nel pollaio
non cantano mai, diceva il Capo. Ma quell'olio, tutti lo sapevano, aveva
la forza della luna, che fa crescere il miglio e fa danzare l'anima.
Quando il corpo fu imbalsamato e l'olio odoroso sparse la sua fragranza
per la capanna e il cortile polveroso, gli uomini iniziarono a suonare il
tamburo e le donne si misero a ballare. Lo facevano a turno, una dopo
l'altra, le braccia avanti, i fianchi grandi che ondeggiavano, i piedi che
battevano forte, in un ritmo sempre più concitato che accelerava anche il
cuore.
Il corpo di Kamigalò sarebbe restato lì, intatto e profumato per sette
giorni, e sette sarebbero stati i giorni della musica. E lei, Kamigalò,
anche se il sole era caldo e faceva sollevare la polvere rossa sotto i
piedi appassionati delle danzatrici, avrebbe sorriso immobile dal suo
letto di paglia.
Un cane abbaiò, le cicale frinirono più forte. Tre avvoltoi sull'albero di
jacaranda abbassarono il capo e guardarono giù, ma quando il suono dei
tamburi aumentò, con un grido rauco, scapparono via.
Le capre furono uccise, scuoiate e messe a rosolare. Il fuoco fu acceso
nel centro del villaggio, e molti invitati furono attesi, anche i
mendicanti.
Il marito di Kamigalò si chiamava Borelo, che significa uomo che sta per
cadere. Si teneva stretto al suo bastone e pensava che sua moglie era
sempre stata come l'acqua fresca che lenisce il dolore.
- Attraversare la foresta con te ha tenuto lontana la paura! - esclamò.
Ma i figli guardarono la madre e notarono che aveva le gambe storte.
- Mamma, quando eri viva non vedevamo i tuoi difetti. - dissero.
- Vostra madre è vostra madre. Che importanza ha, se la morte le ha
stortato le gambe!? - rispose allora la nuora più vecchia.
Poi venne Boto, il mendicante.
- Mi chiamo Boto, che vuol dire borsa vuota. - disse. -Ti ringrazio,
Kamigalò, per la coscia di capra, che mangerò al tuo funerale.
E vennero tutti gli abitanti del villaggio e dei villaggi vicini a
mangiare e a parlare con lei.
- Quando eri viva avevi la vista di una giraffa.
- E avevi la forza di una leonessa in caccia.
- Adesso, senza di te, il villaggio è come un elefante che ha perduto le
zanne. - diceva la gente.
Furono servite le capre, il riso e il vino di palma. Mangiarono tutti con
grande appetito, sole alcune donne anziane, quelle nate al tempo di
Kamigalò, che gli anni, li contavano appendendo un cordoncino alla capanna
ogni stagione delle piogge, e con le siccità che erano venute avevano di
certo perduto il conto, fecero voto di saltare il pasto per sette giorni e
sette notti, anche se le forze già cedevano, e qualcuna poi mangiò di
nascosto. Ma le altre, quelle più giovani, ballarono, batterono le mani,
si saziarono, e piansero a dirotto.
E pianse anche Borelo, che a Kamigalò voleva chiedere un favore.
- Kamigalò cara. - disse avvicinandosi al corpo di sua moglie, con in mano
una stoffa dipinta a cera. - Porta questo regalo a mia madre, che è morta
quando io ero un bambino senza avere il tempo di farmi una carezza. Dille,
per favore, di massaggiarmi ogni sera con la sua mano lieve, perché certi
giorni sento una fitta al petto come se uno spirito maligno mi stesse
conficcando un chiodo.
Le tortore cantavano tra i rami del grande baobab.
- Arrivederci Kamigalò!
Borelo baciò la moglie sulla fronte e uscì dalla capanna. Sulla porta
c'era una fila di persone che aspettava di entrare.
La prima fu Egniap, il cui nome vuol dire sorella grassa. Si avvicinò a
Kamigalò con una pipa in mano e sussurrò:
- Ti ricordi di me, vero? Tu hai avuto quattro figli e un marito che
lavoravano la terra, cara sorella, e quattro nuore che pestavano il miglio
nel mortaio. Ma io dalla mia pancia grande, ho avuto un solo figlio,
bianco, albino, così brutto, che nessuna se l'è voluto sposare. E ho avuto
un marito così scansafatiche che alla sera, invece di stendersi con me,
preferiva fumare e parlare con gli amici. Allora io gli gridavo: cerca
almeno una moglie per il nostro unico figlio. Ma quando l'ha trovata, non
l'ha data a suo figlio, l'ha tenuta per sé.
Nel cortile un gruppetto di bambini ripeteva "Piede che canta, piede che
canta", cantilenando le parole come fossero una ninna nanna. Poi qualcuno
gridò di tacere e nell'aria restò solo una risata soffocata.
Allora Egniap mise la pipa ai piedi del letto e soffiò aria dal naso con
la forza di un toro.
- Tieni Kamigalò, dalla a mio marito e digli che l'ho perdonato. Il giorno
delle nozze, morì, senza avere avuto il tempo di dare alla sua seconda
moglie un figlio con la pelle d'ebano e i capelli di carruba, come avrebbe
voluto. Ecco come vanno le cose, gli piaceva fumare, e anche i suoi
desideri sono finiti in fumo.
Fuori i tamburi suonavano forte. Egniap spostò la tenda e l'ultimo raggio
del tramonto si posò sulle palpebre chiuse della morta. D'un tratto
Kamigalò sembrò spalancare gli occhi. Ma fu un attimo, Egniap non si
accorse di nulla e uscì dalla stanza.
Poi fu la volta di Baindi, che vuol dire donna che cerca di raggiungere
qualcosa. Aveva in mano un balafon, fatto di zucche gialle e di lamelle di
legno chiaro.
- Tieni Kamigalò, prendi il balafon e portalo a mio padre che era uno
grande stregone e digli che ogni giorno suono per gli spiriti.- sussurrò
Baindi entrando nella stanza. -Lo faccio all'alba quando le gazzelle
avanzano calme, e al tramonto quando il sangue scorre di nuovo inquieto.
Suono per gli spiriti della pace che vivono nella luce e per gli spiriti
dell'inganno, che si nascondono nelle tenebre. Suono per tutti, dillo a
mio padre, perché, quando morirò, voglio diventare uno spirito della
musica.
Baindi disse poi parole misteriose, che solo le donne iniziate conoscevano
e fuggì via.
Le ossa di Kamigalò scricchiolarono, era solo il primo giorno, e altri sei
sarebbero seguiti nello stesso modo. Che fatica restare in pace, sembrò
pensare, e il suo sorriso per un attimo si trasformò in un gelido ghigno.
Ma le tradizioni sono tradizioni.
I grilli avevano preso il posto delle cicale, e altri suonatori avevano
preso il posto dei primi. Le donne continuavano a ballare e Egniap muoveva
a ritmo il suo grosso sedere.
Un barbagianni gridò e una iena rise al di là dei campi.
I giorni successivi, uomini e donne di ogni paese, molti venuti anche
dall'altra riva del fiume, sfilarono nella capanna di Kamigalò. Tutti
avevano un regalo per i loro morti: una coperta, una statua, un gioiello,
persino un sacco di riso. Tutti affidarono a Kamigalò una preghiera o un
oggetto prezioso per i loro defunti, come si fa con un viaggiatore che
parte per incontrare amici e parenti che da tempo vivono lontano.
Kamigalò ebbe pazienza, restò ferma, sorrise con un nuovo sorriso lieto e
anche le sue ossa non scricchiolarono più.
Furono cantate molte canzoni: in Africa la festa della morte assomiglia a
quella della vita.
Al settimo giorno, quando il sole era ormai alto, gli imbalsamatori
avvolsero Kamigalò in un telo bianco e la portarono al cimitero, dietro le
acacie a forma di ombrello, un po' distante dal villaggio e dai campi,
alla fossa che i vivi avevano già scavato.
La adagiarono nella buca grande, sul fianco destro, nella posizione che fa
scordare i dolori. E accanto a lei misero tutti i doni che le avevano
affidato. Poi la ricoprirono di terra. Era finita. Gli uomini e le donne
che avevano ballato, col viso di pianto, col passo incerto e affaticato,
tornarono verso le loro case.
Sì, era proprio finita. Kamigalò finalmente sospirò. Era stanca, ai regali
avrebbe pensato dopo, bisognava rintracciare tutti i morti, non era una
cosa facile. Un giorno suo marito e i suoi figli avrebbero mandato anche a
lei doni magnifici, magari una di quelle verze buone che le piacevano
tanto. Aveva avuto una vita serena, e ora avrebbe riposato in pace, pronta
a proteggere i vivi e a rinascere grano, fiore o uomo se fosse stato
necessario.
Grazie, pensò. Sono stata felice al mio villaggio. E stava per
abbandonarsi all'abbraccio della terra, quando all'improvviso aprì gli
occhi. C'era un'ultima cosa da fare, si girò verso il balafon che le aveva
dato Baindi e prese a suonarlo piano, come un sussurro di sorgente e una
melodia di fontana.
Allora il cielo sopra la tomba all'improvviso si oscurò. Lampeggiò e
tuonò, con l'impeto di un tamburo parlante che vuole annunciare un fatto
improvviso e inaspettato.
Kamigalò batté più forte sullo strumento. E alla musica della terra il
cielo rispose con la musica della pioggia. Piovve sui campi, sulle
capanne, sul viso di Borelo, che sussurrava tra sé parole di nostalgia per
la moglie amata. Piovve su Egniap, su Baindì, sui figli, sulle nuore, sul
Capo del villaggio, e su Boto dalla borsa vuota. Piovve sui musicisti e
sulle donne che stavano tornando a casa. Piovve sui trenini di latta che
avevano costruito i bambini.
- E' arrivata la stagione della pioggia! - gridò qualcuno e lo gridò con
una tale allegrezza che il suo grido si propagò in una eco lontana. Poi
tutti corsero nelle strade, si fermarono nella terra fangosa, aprirono le
braccia e aspettarono che quell'acqua sciogliesse la loro fatica.
Torna allo spettacolo