Io qui non ci sto

di Emanuela Nava

I Due si chiamavano Montingegnoli. Era scritto sulla porta, vicino al campanello di ottone. A quei tempi non sapevo ancora leggere, ma quando mi sbatterono a scuola, costringendomi a stare seduto per ore, in quell'aula chiusa e soffocante, imparai subito. Non per fare piacere ai Due, che non avrei accontentato per nessun motivo al mondo, ma per leggere un libro che mi aveva passato, trafugandolo da chissà dove, Nino, il mio compagno di banco. Il libro si intitolava "Cento e un modo per far fuori il nemico".
Nel primo capitolo venivano passati in rassegna i modi bestiali: morso di cobra, puntura di scorpione esotico, scossa di torpedine, assalto di coccodrillo, sventramento con la spada del pesce spada.
Nel secondo capitolo i modi più umani: tagliare il nemico in quattro pezzi uguali, buttarlo giù dal Monte Cervino, congelarlo nel freezer (solo se si ha a disposizione un frigorifero da macellaio), cuocerlo nel camino il giorno di Natale, imbottirlo di polvere da sparo. 
Erano tutti sistemi infallibili, descritti fin nei minimi particolari, che io sognavo già di mettere in pratica con i Montingegnoli. Purtroppo nei consigli finali lessi che era impossibile far fuori due nemici in un colpo solo, senza seminare un sacco di prove. 
Non potevo rischiare. Anche far fuori un Montingegnoli per volta, lasciando nel frattempo all'altro la possibilità di accusarmi, sarebbe stata una pazzia. I Due mi avevano rapito e io avevo tutti i diritti di sbarazzarmene, ma per i bambini è sempre dura fare capire le proprie ragioni ai grandi. Sapevo ormai leggere bene e dai titoli dei giornali avevo capito che se la polizia mi avesse beccato mi avrebbe sbattuto al fresco per il resto dei miei giorni. E la cosa che odiavo di più al mondo era stare chiuso in una stanza.
Quando vivevo a Villibaru dormivo all'aperto. C'erano le stelle nel cielo della mia isola e mi piaceva stare sveglio a contarle. Passavo la notte nella capanna solo se pioveva o se soffiava un vento forte. Ma quando venni a vivere in Italia e chiesi ai Montingegnoli di dormire sul terrazzo, perché c'era la luna piena e un venticello lieve, i due rapitori mi chiusero in una camera buia con le finestre sprangate. Mi rimboccarono le coperte e mi dissero di stare buono, altrimenti chissà quale terribile cosa mi sarebbe capitata. Avevo paura: dai muri provenivano scrosci di acqua e gorgoglii di piovre, dagli scuri filtrava solo una luce sottile. C'erano orribili ombre attorno a me. Non avevo mai dormito in un letto, con il materasso molle e le coperte che pungevano. Sentii una grande nostalgia dello Zio Babi. Mi alzai piano, aprii la porta del terrazzo, feci scattare la leva delle persiane. Uscii e mi sdraiai sulle piastrelle dure del balcone. Respirai profondamente. Era una notte tiepida e c'erano le stelle. Stavo quasi per riprendermi dall'orrore che avevo provato, quando sentii un urlo. Era lei con la vestaglia lilla e le pantofole piumate.
"Brutto piccolo incosciente." gridò. "Alzati ed entra in casa. Il terrazzo è così lurido. Pieno di microbi e di animali terrificanti, pelosi, viscidi, a cento zampe che si annidano nella terra dei fiori. Non lo sai che lo sporco fa venire il verme solitario, le verruche sui pollici, e certe volte fa spuntare la coda?" aggiunse con un tremito.
Povera Montingegnoli, a ripensarci corre anche a me un brivido lungo la schiena. Aveva paura dello sporco e ci stava sempre in mezzo. Da giovane era stata direttrice di in un'impresa di pulizie. C'era una sua foto sul mobile all'entrata: con la scopa e lo straccio in mano. Pulire e lavare erano il suo passatempo preferito. Io odio lo sporco, diceva. E intanto rivoltava i cassetti, lucidava i pavimenti, spolverava i mobili almeno tre volte al giorno. Quando nessuno la vedeva si incantava davanti alla lavatrice. La fissava, che bell'acqua nera, sospirava, osservando il cestello che si muoveva. 
La casa dei Montingegnoli era così pulita, che sembrava disabitata.
Quando il marito tornava a casa, lei lo seguiva con lo spazzolone, pronta a cancellare anche la minima impronta.
Che strano, pensavo: a Villibaru a me piaceva così tanto cercare nella sabbia le impronte dei gabbiani e degli aironi.
Ma lei dopo il rapimento, la prima cosa che fece, fu buttarmi nella vasca da bagno. Era una vasca bianca con la schiuma e l'acqua bollente. Provai a nuotare: non c'era spazio. Cercai di uscire: scivolai sul sapone. Non mi ero mai sentito così impotente. Avevo le palme delle mani rosse da far paura. Per poco non scoppiai a piangere.
Ma la Montingegnoli sorrise.
"Come sei nero." gorgogliò, e cominciò a strofinarmi con lena. "
Si sbalordì quando vide che non cambiavo colore. Chiamò il marito.
"Hai visto?" disse. "Lo lavo, lo lavo e non diventa mai bianco. Forse dobbiamo cambiare sapone."

Torna indietro